Ogni giorno ognuno di noi fa tre cose essenziali: mangia, beve e ascolta musica.
Ogni giorno, quindi, miliardi di persone ascoltano musica.
Volontariamente o involontariamente.
Le cose essenziali hanno un costo.
Il cibo si compra.
Il bere si compra.
La musica si potrebbe acquistare ma non si compra più.
Eppure rimane un bene essenziale.
La musica si ascolta gratuitamente.
Al massimo pagando qualche euro per un abbonamento mensile che non giustifica i costi delle produzioni artistiche ed esecutive delle canzoni che si ascoltano (gratuitamente).
I concerti si pagano ma non sono un bene primario.
La musica lo è. Lo è sempre stata.
È impensabile immaginare anche un solo giorno senza di essa.
Eppure il mercato musicale è in crisi, da anni.
Non si vendono dischi.
Si vendono ascolti e visualizzazioni.
Con la sottile differenza che mentre con i dischi, un tempo, rischiavi di comprarti una casa, con gli stream e le views rischi, al massimo, se ti va bene, di pagarci la rata di una macchina.
E non è colpa di Napster, di Spotify o compagnia bella.
Loro sono soltanto la conseguenza di alcune scelte sbagliate, di errori macroscopici che hanno fatto fallire un sistema che funzionava. Facendo chiudere negozi di musica, lasciando a piedi musicisti, cantautori, produttori artistici, talent scout, addetti ai lavori specializzati.
La responsabilità è di qualcuno di cui, purtroppo, non si conosce il nome e il cognome.
Qualcuno che, probabilmente, non faceva musica, la vendeva.
E che ora si occuperà di food o di beverage che sono beni essenziali, come la musica, però si vendono ancora.